La storia della breccia di Porta Pia

La breccia di Porta Pia è un momento fondativo dell’unità e dell’identità nazionale. Oggetto di controversie tra i “liberali massoni” e i cattolici per svariati decenni, nel ricorrere oggi dei 140 anni, dispiace trovare ancora diffuse nei quotidiani frasi di questo tipo: “con Porta Pia è nato lo Stato laico” (Filippo Facci, Abbiamo riconsegnatoPorta Pia al Vaticano, Il post, oggi).

Come se prima di Porta Pia, lo Stato Pontificio fosse uno stato tipo l’Iran di Khomeini e i cattolici simili ai talebani di Bin Laden! Anticlericalismo superficiale, d’accatto, assolutamente privo di senso storico. Allo stesso modo, non è del tutto centrata la lettura in chiave di “rivoluzione italiana” dotata di una (relativa) base popolare come scrive oggi Diego Mengon in Libertiamo.it (Oggi, 140 anni fa, Roma diventa italiana. E l’Italia un pò romana):”la Repubblica del 1849 era stata instaurata con la sollevazione di buona parte degli abitanti della capitale, proprio in conseguenza del mancato appoggio alla causa nazionale da parte di Pio IX, durante il conflitto tra gli stati italiani e l’Austria.

L’inno d’Italia testimonia la nascita della nazione dallo scontro tra il potere temporale della Chiesa e la lotta costituzionale e liberale per l’unità della patria.

Il suo autore, Goffredo Mameli, morì nel 1849 sotto i colpi degli eserciti cattolici accorsi a Roma da tutta Europa per ripristinare l’autorità papale”. Due stereotipi (il Risorgimento come “rivoluzione anti-papista” e come “rivoluzione popolare”) entrambi fuorvianti per comprendere (oltrechè il Risorgimento) anche i moventi della “questione romana”.

Innanzitutto, si dimentica troppo spesso che la “questione romana” non sorge nel 1870, con Porta Pia; e non sorge nemmeno per la repressione dei moti del 1849 che determinarono la fuga del Papa da Roma e la nascita della (effimera) Repubblica Romana di Saffi e Mazzini. Viceversa, il 20 settembre costituisce la punta dell’iceberg della “questione ecclesiastica” scoppiata almeno fin dal 1852 nel Regno di Sardegna con le leggi Siccardi e le prime leggi “eversive” dell’asse ecclesiastico, che posero le basi della massiccia confisca a favore dell’Erario italiano di conventi e beni ecclesiastici; opera di confisca che, per altro, si accentuò tra il 1861 e il 1864 in pieno brigantaggio, quando i “clericali” furono effettivamente visti come “nemici interni” del nuovo Stato per l’appoggio ufficiale dato da Papa Pio XI alle rivendicazioni di Re Franceschiello, ovvero al principale animatore delle rivolte anti-sabaude nel Sud, dove i briganti fecero la parte dei leoni, dando non poco filo da torcere al neo-esercito italiano.

Sullo sfondo delle tensioni Stato-Chiesa, poi, non c’è solo una questione di “privilegi” economici, ma anche dispute legate al conflitto di giurisdizione tra Stato e Chiesa, tipici non solo in Italia, ma anche in Europa. Chiariamo subito: nessuno mai da Costantino in poi, si sognò mai tra i cattolici di imporre il Vangelo come legge dello Stato e di imporre pene coercitive per chi contravveniva al Vangelo, cosa che oggi capita impunemente nella sharia islamica: viceversa, il cristianesimo, specie nella sua edizione “romana” mostrò da subito un grande rispetto per le reltà temporali cd. “penultime”.

Nè mai lo Stato Pontificio divenne uno stato confessionale in senso stretto, perchè in esso le minoranze religiose furono sempre riconosciute e tollerate, prima fra tutte la minoranza ebraica che, regando i Pontefici, potè istituire una Sinagoga e dare vita ad una ricca e vitale comunità. Diversamente, i Pontefici (vedi Innocenzo III, Gregorio IX) non mancarono mai di dire la loro nelle questioni civili, ma in modo non troppo difforme da come oggi Benedetto XVI “dice la sua” in materia di matrimonio, etica, economia, enunciando principi di “morale naturale e aconfessionale”, oggi denominati “dottrina sociale della Chiesa”.

Ora, siccome tali enunciazioni, non confessionali, ricalcavano in gran parte massime e regole già codificate nel diritto romano, non era infrequente che Stati e Tribunali civili medievali, non ancora organizzati e disciplinati negli organismi burocratici e “castali” di oggi, regolassero la propria giurisdizione su regole e criteri di diritto, su cui Pontefici, Cardinali, avevano espresso il loro parere.

Questa esperienza giuridica di grande comunicazione tra diritto laico e religioso (in nome della comune matrice giusnaturalista) trovò la massima espressione nello ius utroque (combinazione tra diritto civile-diritto canonico) di Bologna del XI Secolo e nel “momento d’oro” del diritto canonico intorno al XVI secolo. Un simile modus procedendi, di evidente e conclamata “porosità” tra diritto civile e diritto canonico, creava sovrapposizioni tra giurisdizione civile ed ecclesiastica: un caso conclamato la questione massonica: contro la Massoneria si pronunciò prima nel 1738 il Papa in nome del principio di derivazione romanistica (e ritenuto ius gentium) secondo cui erano in linea di principio illecite le associazioni segrete e che professassero la segretezza nei propri Statuti. Provvedimenti che in diverse occasioni alcuni Stati filo-papisti (es. Granducato di Toscana e Regno di Napoli) poi recepirono in proprie ordinanze iniziando la persecuzione dei massoni. Il cuore della questione Stato-Chiesa è qui, e come si può vedere si tratta di una questone molto più articolata, molto più complessa ed ingarbugliata della semplice “laicità” e della semplice accusa di “confessionalismo” rivolta ai Papi ed ai Cattolici.

Potrebbe oggi rinascere un simile modus operandi? La questione è molto discussa, tra gli ecclesiologi e i giuristi di diritto ecclesiastico: c’è qualcuno che rinviene nel Concordato Lateranense del 1929 un dispositivo tradizionale di immissione nel diritto civile italiano di norme tipiche del diritto canonico (es. l’esenzione dei chierici dal servizio militare, la rilevanza dello status di “prete apostata” che fino agli anni 60 comportava alcune penalizzazioni e preclusione nei concorsi pubblici), viceversa c’è chi ritiene superata questa funzione del Concordato come custode dei “privilegi” giuridici della Chiesa, ritenendo acquisita l’idea che il Concordato, non mutando la fondamentale “autonomia” anche disciplinare tra Stato e Chiesa (vedi art. 07 Cost.), non possa determinare “limitazioni” in senso stretto di sovranità giuridica da parte dello Stato (così COLAIANNI, Laicità e prevalenza delle fonti di diritto unilaterale sugli accordi con la Chiesa Cattolica in Politica del diritto, Vol. XLI, nr. 02, giugno 2010).

Viceversa, altri rinvengono la conservazione di una relativa funzione di “privilegio giuridico” ecclesiastico nel Concordato, ma aderiscono ad una nozione di “diritto concordatario”, come diritto finalizzato ad individuare le fonti e le procedure per la regolazione di “sensibili” del rapporto Stato-Chiesa come lo status degli insegnanti di religione, i beni ecclesiastici etc. (ASTORRI, I concordati di Giovanni Paolo II, in Civitas, III, nr. 02/2006).

 Contro, però, l’accusa comunemente invalsa delle “ingerenze” della Chiesa negli affari degli Stati sulle questioni del divorzio, aborto, eutanasia, va detto che ormai il Concordato non è più uno strumento tanto efficace in questo senso. Ecco, perchè la questione della “laicità” andrebbe quantomai aggiornata. Oggi, comunque, è pressocchè impossibile la riproposizione di vere e proprie sovrapposizioni tra Stato e Chiesa nell’ambito dei diritti civili (matrimonio etc.) come ad esempio si verificò in occasione della “questione massonica” nel Sec. XVIII: soprattutto il declinare del cattolicesimo, come religione “di minoranza” rende oggi molto difficile riprodurre leggi civili contro divorzio, aborto etc., le quali oggi non troverebbero più il consenso maggioritario di ieri. Viceversa, anticamente, il cattolicesimo era “senso comune” presso le popolazioni; pertanto, in nessuno non destava meraviglia se un Re o un Giudice, per emettere una legge o una sentenza anche su aspetti rilevanti della vita civile (es. associazioni), si richiamava a pronunciamenti ufficiali del Papa in fatto di diritti e “morale naturale”. 

Venendo alla Storia d’Italia e all’impatto che l’intransigenza della Chiesa ebbe sull’unificazione nazionale, gli storici si sono divisi, dando vita a continue controversie. Dire, comunque, che la Chiesa disconobbe l’Italia come Nazione contro una supposta “volontà popolare” che era maturata in questo senso, è però ancora una grave inesattezza: nessun cattolico, infatti, alla vigilia dell’Unità d’Italia, disconobbe il carattere unitario delle popolazioni italiane.

Ciò che divideva i cattolici era il modo per valorizzare tale unità nazionale: alcuni (Monaldo Leopardi) ritenevano che il migliore garante dell’Unità Nazionale fosse il cattolicesimo e che  il Congresso di Vienna avesse trovato la formula ideale per garantire la sanità cattolica dell’Italia, restituendo al Papa la piena giurisdizione spirituale e all’Austria la giurisdizione “politica” sull’intera Cristinanità. Altri (Gioberti) cercarono di risolvere nella dialettica storicistica e filosofica la necessità di un’unificazione nazionale della Penisola. Altri ancora (Luigi Taparelli d’Azeglio, fratello del più celebre Massimo) non negarono in via di principio la bontà dell’Idea Nazionale, ovvero non negarono in linea teorica l’opportunità e l’utilità che all’Unità Culturale facesse seguito anche l’Unità Statuale, ma ne ritenevano non maturi i tempi, temendo soprattutto che i “diritti delle nazionalità” divenissero altrettanti “cavalli di Troia” per seminare nell’Europa disordini (sociali e geopolitici) paragonabili alla Rivoluzione Francese.

Alla fine, furono queste le ragioni di opportunità che spinsero i Papi italiani alla purdenza e all’attendismo verso lo Stato italiano, anche dopo che la ferita di Porta Pia via via si allontanava e, con essa, anche l’acme della tensione tra Roma e Casa Savoia. In questo, la posizione dei Papi dopo Porta Pia, la loro politica “astensionista” (non expedit) rispetto alle elezioni politiche (ma non alle amministrative) verso lo Stato Italiano corse parallela alla vicenda della Terza Repubblica francese, uscita, dopo la Comune, in un contesto di grande confusione politica.

Preoccupati che la Terza Repubblica francese fosse l’ennesima costruzione politica artificiale e “giacobina”, dettata da movimenti politici e d’opinione agitati quanto violenti, i Papi non si sbilanciarono troppo nel riconoscere lo status quo, almeno finchè le vecchie casate “legittimiste” di Borbone e di Orlèans, non ancora estinte,  avrebbero (almeno teoricamente) potuto costituire una degna “classe dirigente di riserva”. Morto, poi, Enrico V di Orlèans e cadute le ultime speranze di restaurazione legittimista, a Leone XIII nel 1886 non restò che riconoscere la Repubblica, in nome del principio che la dottrina sociale della Chiesa non si identifica con nessun ordine politico. Non dissimile sarà la politica del Papa verso l’Italia, a disagio, nella sua funzione di pastore della Cristianità Universale,  nel riconoscere i diritti di una Monarchia Italiana, che non è altro il frutto in fondo di una “usurpazione” che la Casata dei Savoia aveva compiuto ai danni delle altre casate cattoliche d’Italia (per il Papa altrettanto degne e legittime nei loro diritti storici). 

Tale posizione che, però, via via verrà meno e ne saranno una chiara avvisaglia le prime deroghe al non expedit nelle elezioni generali del 1904, l’entrata a Montecitorio dei primi “deputati cattolici” (Meda etc.) e il trionfo del Patto Gentiloni del 1913: tutte operazioni rese possibili, da un lato, dall’aperta e conclamata impossibilità di ripresa delle vecchie casate legittimiste e, dall’altro, dal tumultuoso evolvere degli eventi politici e sociali a seguito del decollo industriale italiano e della coeva affermazione del Socialismo Ateo e materialista.

A fronte di tutto questo, appare manifesta e conclamata la stupidità di chi rinviene nella Chiesa un “nemico della Nazione italiana”. A parte che l’unficazione italiana, bene o male, con tutte le sue luci, ombre e contraddizioni del caso, si realizzò e divenne fatto compiuto con la Prima Guerra Mondiale e con l’esperienza del “fascismo” che (con tutti i suoi limiti, errori e anche orrori) cercò comunque di intercettare energie, entusiasmi e speranze di un’Italia che si scopriva Nazione e si scopriva capace di “pensare in grande” al proprio futuro; a parte cioè che le controversie sulla “questione romana” non impedirono all’Italia di formarsi come Nazione compiuta, nonostante tutto, anche sul versante politico, il cambiamento di tono  dei cattolici verso le ragioni dello Stato italiano sono evidenti e si colgono nelle posizioni filo-interventiste di un Giovanni Grosoli  e di un Luigi Sturzo, grandi dirigenti del movimento cattolico “astensionista”, favorevole il primo alla Guerra di Libia nel 1911  e favorevole il secondo alla Grande Guerra nel 1914, nonostante il “neutralismo” fosse il corollario ufficiale della posizione “intransigente” del Vaticano verso lo Stato Italiano. Segno che la posizione critica e polemica del Vaticano verso l’Italia non sarà la causa del debole senso nazionale degli italiani; a far questo, ci penseranno trent’anni dopo i tragici eventi dell’08 settembre 1943 nel pieno della Seconda Guerra Mondiale e in un mondo completamente cambiato rispetto a Porta Pia.