Nelle precedenti puntate, abbiamo messo a fuoco le premesse politiche, sociali ed economiche del regime, quelle che potremmo definire le “cause remote” che, nel lungo periodo, favoriranno il consolidamento del fascismo come Stato-Regime. Prima, però, di questo “matrimonio” con il quale le sorti dell’Italia resteranno legate al fascismo per un buon ventennio, e che fu “siglato” per così dire nel sangue passando attraverso alcuni momenti tragici (come il Delitto Matteotti e come gli attentati al Duce tra il 1925 e il 1926), ci fu tra Italiani e fascismo una fase di “fidanzamento” dall’andamento incerto ed altalenante.
Se nell’Italia di allora molti tra i politici borghesi si aspettavano uno “sbocco autoritario” della crisi del “biennio rosso” e del dopoguerra (alla Crispi o alla Pelloux), pochi avrebbero potuto prevedere che all’autoritarismo l’Italia sarebbe sì arrivata, ma con quella esperienza anomala che fu il fascismo. La frustrazione nazionalista non sarebbe stata sufficiente a Mussolini per ottenere consensi: come vedremo ancora nelle prossime puntate, il fascismo ebbe la meglio perché “conciliò” in un equilibrio ambiguo e instabile le istanze di conservazione con le spinte comunque “progressive” dei ceti medi che avevano fatto la guerra e non accettavano i vecchi quadri politico-sociali giolittiani (Gramsci se ne accorgerà quando nel 1926 al Congresso di Lione riconoscerà nel fascismo anche i caratteri di”movimento sociale”, oltreché di reazione).
Questo fu indubbiamente il “valore aggiunto” del fascismo che riuscì a catturare nel tempo a suo favore la forza avversaria (comunismo), deviata dall’obiettivo, in non debole analogia con la strategia nazista di conquista del potere così ben descritta da Ernst Nolte. Se questo comunque è sicuramente alla base del carattere duraturo e stabile del “matrimonio” ventennale tra Italia e fascismo, nella fase di “fidanzamento” (che potremmo dire iniziare tra il 1921 e le elezioni politiche del 06 aprile 1924) la leva decisiva del successo politico del futuro Duce fu indubbiamente l’alleanza con i conservatori moderati. Alleanza difficile, se non impossibile, sulla carta, per un politico che non aveva mai nascosto le sue origini socialiste e la propensione alla jacquerie; ma che a Mussolini riuscì non solo per la sua indubbia capacità di “mimesi” politica, ma anche per la sua cinica e spregiudicata abilità nel prolungare con energia lo spauracchio di un “pericolo comunista” (anche quando il “biennio rosso” era finito, quantunque Spagna e Germania negli anni 30 contribuiranno a confermare la paura comunista). In questo modo, il fascismo potè venire a patti con i conservatori, ma sottraendosi alla loro egemonia. Cominciamo comunque con ordine.
Il fascismo per come lo riconosciamo oggi nelle sue vesti trionfali dello squadrismo spavaldo e arrogante, nacque in modo spontaneo e imprevedibile dalle ceneri dell’interventismo di Sinistra. La fondazione il 23 marzo 1919 in Piazza S. Sepolcro dei primi Fasci di Combattimento, in una chiave di continuità con l’Interventismo di Sinistra del 1914-1918, fu seguita dalla pesante sconfitta elettorale del novembre successivo.
Questa esperienza, i cui termini del fallimento abbiamo descritto nella puntata precedente, non impedì, però, ai Fasci di esprimersi come punto di incontro tra la vecchia base dell’Interventismo di Sinistra (anarco-novatori come Massimo Rocca, sindacalisti rivoluzionari etc.) e futuristi ed Arditi (es. Bottai). I quali ultimi movimenti, aggregando gli elementi combattentistici più giovani e, quindi, culturalmente e politicamente più “vergini”, contribuirono ad imprimere al movimento una carica rivoluzionaria e militare del tutto imprevista, che colse di sorpresa lo stesso Mussolini.
Fu così che nacque lo Squadrismo il quale subito dimostrò enormi capacità nell’ applicare alla guerriglia interna e politica i metodi di “attacco rapido” dei reparti mobili e delle Squadre d’assalto dei Corpi Speciali dell’Esercito (MAS e Arditi), con effetti di intimidazione e di repressione degli avversari politici enormi e del tutto impensati. Subito, tra Squadrismo e borghesia agraria e commerciale (più prudenti banche e industrie) fu … “amore a prima vista”: lo Squadrismo, infatti, fu visto da questa borghesia quale antidoto ideale per avere ragione dell’arroganza delle Leghe Operaie e ben presto convogliarono nei fasci le più svariate associazioni patriottiche, nate per lo più spontaneamente contro sovversivi e “rossi”, e che trovarono una comoda legittimazione nella propaganda anti-comunista e “combattentistica” di Mussolini.
Ora, sugli assalti fascisti, senza volerli giustificare, si deve dire una cosa: le masse operaie facevano paura davvero; gli scioperi, quando avvenivano e paralizzavano le poste, gli impianti di luce, gas, acqua, mettevano davvero in ginocchio le grandi città, come veri e propri atti di sabotaggio degni di una guerra civile. Basti ricordare che le intimidazioni e i saccheggi della folla ai negozi a Milano nel 1919 indurranno i commercianti milanesi, disperati, ad affidare le chiavi alla locale Camera del Lavoro! Non può a questo punto meravigliare più di tanto la contro-reazione fascista, convinta di rispondere ad armi pari ad assalti di guerra civile.
Grande impressione, in questo senso, suscitò l’Assalto a Palazzo d’Accursio a Bologna il 21 novembre 1920, quando, insediatasi la Giunta di Sinistra, una bomba a mano fu lanciata da fascisti nella Sala Consiliare, provocando innumerevoli morti e feriti e l’inizio di quell’escalation contro le cooperative socialiste e comuniste che segnerà il culmine del successo fascista prima delle elezioni politiche del 15 maggio 1921. In questo clima, Mussolini si trovò al centro dell’attenzione politica e sociale, senza avere del tutto realizzato i modi e i tempi del suo successo! Questa incertezza di Mussolini è caratteristica dei suoi primi passi di parlamentare fino alla marcia su Roma (e oltre) ed è comunque sintomatica di un dato politico di prima importanza che lo condizionò per tutta l’azione successiva fino alla Marcia su Roma: se lo Squadrismo faceva paura fisicamente, alla lunga avrebbe potuto diventare un boomerang politico: come la borghesia d’ordine si era stancata dei torbidi comunisti, così presto si sarebbe stancata dei torbidi fascisti, lasciando il futuro Duce letteralmente “a terra” .
Ancora Mussolini è lontano dall’idea di un regime fascista per come si sarebbe delineato tra il 1926 e il 1928; eppure, quando già sulla metà del 1921, l’esperienza del “biennio rosso” è finita, Mussolini, da bravo tattico opportunista, “sente” che comunque con il mondo “romano” e parlamentare deve venire a patti. Issato al Parlamento il movimento fascista con la dote rilevante di 35 deputati (eletti grazie ai Blocchi Nazionali promossi da Giolitti), Mussolini tentò così la carta della “istituzionalizzazione” del fascismo stipulando il “patto di pacificazione” il 03 agosto 1921. L’accordo di pacificazione tra fascisti, popolari e socialisti (tra i firmatari figurerà anche l’On. Tito Zaniboni che, ironia della sorte, sarà uno dei più noti attentatori del Duce!) era rivolto al disarmo delle squadre, e fu il frutto dei “buoni uffici” del Presidente della Camera, il giolittiano Enrico De Nicola.
Se col “patto di pacificazione” Mussolini riuscì comunque ad entrare nel “grande gioco” del Parlamento ed acquisire legittimità contemporaneamente, il futuro Duce rischiò la sconfessione da parte del movimento fascista: le Squadre, infatti, rifiutarono il Patto. Dopo un duro braccio di ferro, Mussolini, per non essere identificato con la “teppaglia” e perdere così i vantaggi politici fin lì conseguiti, si rassegnò ad un modus vivendi ambiguo, per cui il patto non venne disconosciuto dal movimento, ma la sua applicazione venne affidata ai vari leader locali: il che equivaleva ad affossarlo, senza che Mussolini se ne assumesse direttamente la responsabilità politica.
Questa vicenda face maturare in Mussolini la consapevolezza che il fascismo, lungi dall’essere un movimento labile e liquido, si andava costituendo, grazie al cameratismo stretto delle Squadre d’Assalto e al loro radicamento territoriale, come una rete di “rassati” locali del tutto indocili e insensibili ad istanze di disciplina, vuoi politica, vuoi militare; un quadro di sostanziale anarchia che non muterà con la fondazione in dicembre del Partito Nazionale Fascista (PNF) che da subito si rivelerà un organismo farraginoso, pletorico, incapace di comando. Le Squadre, in particolare, temevano che la “normalizzazione” del fascismo (paventata anche da Mussolini), preludesse allo loro liquidazione, esaurita la loro funzione di contrasto ai Comunisti. Di qui, il paradosso politico per cui, finito il “biennio rosso”, la violenza squadrista non cessava e iniziava a prendere inopinatamente di mira anche esponenti repubblicani, cattolici, finanche democratici. Un messaggio neanche troppo scoperto a Mussolini affinchè non si amalgamasse con i “pescecani”, i “traditori della patria”, gli “uomini del parecchio” che il movimento intendeva sconfessare per prenderne il posto al comando dello Stato. Questa situazione, nello scorcio tra il giugno 1921 e l’ottobre 1922, creerà molti problemi a Mussolini.
In condizioni “normali”, infatti, lo Stato avrebbe reagito e isolato i fascisti, riducendo all’irrilevanza politica Mussolini. Fu solo la frammentazione politica e la sempre più accentuata debolezza degli esecutivi (indotta dalla crisi dello Stato liberale già descritta nelle precedenti puntate), ad impedire che le sorti politiche di Mussolini precipitassero: da un lato, la debolezza degli esecutivi rendeva difficile la risposta repressiva di Prefetti e Questori, i quali, strettamente dipendenti dal potere politico, erano restii a compromettersi, temendo di essere facilmente “scaricati” da Roma; dall’altro, l’ambiguità dei Presidenti del Consiglio Bonomi e Facta, i quali (nella loro vieta logica “trasformistica”) sperarono di utilizzare l’appoggio parlamentare del PNF per provocare una scissione dei riformisti del PSI in chiave anti-fascista (cosa che sarebbe avvenuta, ma tardivamente nell’ottobre 1922 con la fondazione del PSU con Segretario Giacomo Matteotti).
Questa “grande coalizione” liberale-democratico-riformista avrebbe avuto il necessario seguito popolare e sindacale per “scaricare” successivamente anche il fascismo e non a caso Mussolini la temeva di più, specie se alla sua guida fosse andato (come si ventilava) una vecchia volpe come Giovanni Giolitti: “come ha fatto sparare su d’Annunzio, così farà sparare anche sui fascisti”, pare abbia confidato Mussolini ai suoi. Per evitare questa eventualità, Mussolini giocò spregiudicatamente su due piani. Da un lato, consolidò la sua credibilità di leader conservatore di centro-destra (per spezzare il fronte parlamentare moderato), concependo, specie nel 1922, concessioni “clamorose” al fronte conservatore come: le aperture al liberismo economico tramite gli articoli di Massimo Rocca sul programma economico del PFN (che rompeva con la piattaforma socialisteggiante del Programma di S. Sepolcro); l’abbandono tra il settembre e l’ottobre 1922 della “tendenziale repubblicana” del fascismo verso un più marcato lealismo monarchico, che si diversificava da quello conservatore tradizionale, per l’accento posto sui meriti che la Monarchia, con l’Intervento del 1915 e la vittoria di Vittorio Veneto si sarebbe conquistata davanti all’Italia (in questo rassicurò l’Esercito, concorrendo a guadagnarsene non l’appoggio, ma quantomeno la neutralità politica); le concessioni sempre più marcate al Vaticano in termini di riconoscimento statale della Religione Cattolica e delle opere di istruzione, che porrà le premesse, ad esempio, del riconoscimento statale dell’Università Cattolica e dell’abbandono dei vertici vaticani dei referenti politici sturziani e popolari.
Dall’altro, Mussolini giocò scopertamente sul bluff politico, caricando il teppismo e il sovversivismo fascista di motivazioni di reazione anti-comunista, che non aveva, ma che erano indotte dalla paura della borghesia per la nascita, nel 1921 di un Partito Comunista d’Italia che tallonava il PSI sul fronte “estremista” e “rivoluzionario” con programmi di aperta sovversione bolscevica, creando al suo interno incertezze e divisioni: tanto da portare un autorevole dirigente riformista del PSI come Giacomo Matteotti a vedere nel Comunismo la tabe che avrebbe impedito al PSI di convogliare nel suo antifascismo le aspirazioni di quella borghesia d’ordine e legalitaria che, stanca dell’estremismo da qualunque parte provenisse, specie nel 1922, non sarebbe stata insensibile ad una liquidazione dello Squadrismo e del fascismo stesso, in nome della “normalizzazione”. Mussolini, cavalcando queste ambiguità e divisioni della Sinistra, invece, fu abilissimo nel proporre sé stesso come garante della “normalizzazione”, giocando apertamente al bluff politico-giornalistico, accreditando l’impossibilità di venire a capo dei permanenti perturbamenti dell’ordine pubblico, se i Giolitti e soci non si fossero decisi a dargli tutto il potere nelle sue mani (Palazzo Chigi).
Il grande bluff politico fu la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, quando Mussolini riuscì ad ottenere la Presidenza del Consiglio, dando ad intendere ai politici di Roma (coi quale pure si coalizzò per costituire un Ministero) che una soluzione anti-fascista avrebbe provocato una sorta di nuovo assalto al “Palazzo di Vetro” da parte dei fascisti. Ma se questo evento riuscì così efficace nel dare al fascismo un’aura di invincibilità che in realtà allora non aveva (almeno militarmente), ciò lo si dovette all’intensa propaganda costruita da Mussolini e dal Popolo d’Italia attorno a due grandi eventi dell’estate, che confermarono presso il pubblico la fama di Mussolini come “castigamatti dei sovversivi”: da un lato, la sconfitta dello sciopero legalitario, proclamato dall’Alleanza per il lavoro il 01 agosto 1922, in chiara funzione anti-fascista, da Comunisti, Socialisti, Repubblicani, CGIL e Sindacalisti rivoluzionari antifascisti, quando le forze nazionali, capeggiate da Mussolini decisero di contrastare lo sciopero riattivando dove possibili tutti i servizi necessari alla popolazione (in Emilia, comunque, ci fu una lunga coda di violenze politiche); dall’altro, la vicenda dell’occupazione fascista del Comune di Milano il 03 agosto 1922, a maggioranza socialista.
Fu attraverso queste “prebende” che il Duce riuscì ad ottenere dalla Camera dei Deputati il 16 novembre 1922 la piena investitura del suo esecutivo e la prima delega ai “pieni poteri” per stabilire l’ordine pubblico in Italia. Sotto il ricatto dell’assalto dei manipoli che sarebbero intervenuti in caso di esito infausto del voto, il Duce ottenne dall’ “Aula sorda e grigia” di Montecitorio un primo indubbio successo: piegare una maggioranza di centro-sinistra (da fascisti, popolari, liberali, democratici, nazionalisti etc.), numericamente forte, ma senza spina dorsale politica e che in altre condizioni avrebbe certamente votato Giolitti, a votare per il parvenu di Predappio. Che non se ne sarebbe andato via se non dopo quasi 21 anni.