Storia del fascismo

Nelle precedenti puntate, abbiamo messo a fuoco le premesse politiche, sociali ed economiche del regime, quelle che potremmo definire le “cause remote” che, nel lungo periodo, favoriranno il consolidamento del fascismo come Stato-Regime. Prima, però, di questo “matrimonio” con il quale le sorti dell’Italia resteranno legate al fascismo per un buon ventennio, e che fu “siglato” per così dire nel sangue passando attraverso alcuni momenti tragici (come il Delitto Matteotti e come gli attentati al Duce tra il 1925 e il 1926), ci fu tra Italiani e fascismo una fase di “fidanzamento” dall’andamento incerto ed altalenante.

Se nell’Italia di allora molti tra i politici borghesi si aspettavano uno “sbocco autoritario” della crisi del “biennio rosso” e del dopoguerra (alla Crispi o alla Pelloux), pochi avrebbero potuto prevedere che all’autoritarismo l’Italia sarebbe sì arrivata, ma con quella esperienza anomala che fu il fascismo. La frustrazione nazionalista non sarebbe stata sufficiente a Mussolini per ottenere consensi: come vedremo ancora nelle prossime puntate, il fascismo ebbe la meglio perché “conciliò” in un equilibrio ambiguo e instabile le istanze di conservazione con le spinte comunque “progressive” dei ceti medi che avevano fatto la guerra e non accettavano i vecchi quadri politico-sociali giolittiani (Gramsci se ne accorgerà quando nel 1926 al Congresso di Lione riconoscerà nel fascismo anche i caratteri di”movimento sociale”, oltreché di reazione).

Questo fu indubbiamente il “valore aggiunto” del fascismo che riuscì a catturare nel tempo a suo favore la forza avversaria (comunismo), deviata dall’obiettivo, in non debole analogia con la strategia nazista di conquista del potere così ben descritta da Ernst Nolte. Se questo comunque è sicuramente alla base del carattere duraturo e stabile del “matrimonio” ventennale tra Italia e fascismo, nella fase di “fidanzamento” (che potremmo dire iniziare tra il 1921 e le elezioni politiche del 06 aprile 1924) la leva decisiva del successo politico del futuro Duce fu indubbiamente l’alleanza con i conservatori moderati. Alleanza difficile, se non impossibile, sulla carta, per un politico che non aveva mai nascosto le sue origini socialiste e la propensione alla jacquerie; ma che a Mussolini riuscì non solo per la sua indubbia capacità di “mimesi” politica, ma anche per la sua cinica e spregiudicata abilità nel prolungare con energia lo spauracchio di un “pericolo comunista” (anche quando il “biennio rosso” era finito, quantunque Spagna e Germania negli anni 30 contribuiranno a confermare la paura comunista). In questo modo, il fascismo potè venire a patti con i conservatori, ma sottraendosi alla loro egemonia. Cominciamo comunque con ordine.

Il fascismo per come lo riconosciamo oggi nelle sue vesti trionfali dello squadrismo spavaldo e arrogante, nacque in modo spontaneo e imprevedibile dalle ceneri dell’interventismo di Sinistra. La fondazione il 23 marzo 1919 in Piazza S. Sepolcro dei primi Fasci di Combattimento, in una chiave di continuità con l’Interventismo di Sinistra del 1914-1918, fu seguita dalla pesante sconfitta elettorale del novembre successivo.

Questa esperienza, i cui termini del fallimento abbiamo descritto nella puntata precedente, non impedì, però, ai Fasci di esprimersi come punto di incontro tra la vecchia base dell’Interventismo di Sinistra (anarco-novatori come Massimo Rocca, sindacalisti rivoluzionari etc.) e futuristi ed Arditi (es. Bottai). I quali ultimi movimenti, aggregando gli elementi combattentistici più giovani e, quindi, culturalmente e politicamente più “vergini”, contribuirono ad imprimere al movimento una carica rivoluzionaria e militare del tutto imprevista, che colse di sorpresa lo stesso Mussolini.

Fu così che nacque lo Squadrismo il quale subito dimostrò enormi capacità nell’ applicare alla guerriglia interna e politica i metodi di “attacco rapido” dei reparti mobili e delle Squadre d’assalto dei Corpi Speciali dell’Esercito (MAS e Arditi), con effetti di intimidazione e di repressione degli avversari politici enormi e del tutto impensati. Subito, tra Squadrismo e borghesia agraria e commerciale (più prudenti banche e industrie) fu … “amore a prima vista”: lo Squadrismo, infatti, fu visto da questa borghesia quale antidoto ideale per avere ragione dell’arroganza delle Leghe Operaie e ben presto convogliarono nei fasci le più svariate associazioni patriottiche, nate per lo più spontaneamente contro sovversivi e “rossi”, e che trovarono una comoda legittimazione nella propaganda anti-comunista e “combattentistica” di Mussolini.

Ora, sugli assalti fascisti, senza volerli giustificare, si deve dire una cosa: le masse operaie facevano paura davvero; gli scioperi, quando avvenivano e paralizzavano le poste, gli impianti di luce, gas, acqua, mettevano davvero in ginocchio le grandi città, come veri e propri atti di sabotaggio degni di una guerra civile. Basti ricordare che le intimidazioni e i saccheggi della folla ai negozi a Milano nel 1919 indurranno i commercianti milanesi, disperati, ad affidare le chiavi alla locale Camera del Lavoro! Non può a questo punto meravigliare più di tanto la contro-reazione fascista, convinta di rispondere ad armi pari ad assalti di guerra civile.

Grande impressione, in questo senso, suscitò l’Assalto a Palazzo d’Accursio a Bologna il 21 novembre 1920, quando, insediatasi la Giunta di Sinistra, una bomba a mano fu lanciata da fascisti nella Sala Consiliare, provocando innumerevoli morti e feriti e l’inizio di quell’escalation contro le cooperative socialiste e comuniste che segnerà il culmine del successo fascista prima delle elezioni politiche del 15 maggio 1921. In questo clima, Mussolini si trovò al centro dell’attenzione politica e sociale, senza avere del tutto realizzato i modi e i tempi del suo successo! Questa incertezza di Mussolini è caratteristica dei suoi primi passi di parlamentare fino alla marcia su Roma (e oltre) ed è comunque sintomatica di un dato politico di prima importanza che lo condizionò per tutta l’azione successiva fino alla Marcia su Roma: se lo Squadrismo faceva paura fisicamente, alla lunga avrebbe potuto diventare un boomerang politico: come la borghesia d’ordine si era stancata dei torbidi comunisti, così presto si sarebbe stancata dei torbidi fascisti, lasciando il futuro Duce letteralmente “a terra” .

Ancora Mussolini è lontano dall’idea di un regime fascista per come si sarebbe delineato tra il 1926 e il 1928; eppure, quando già sulla metà del 1921, l’esperienza del “biennio rosso” è finita, Mussolini, da bravo tattico opportunista, “sente” che comunque con il mondo “romano” e parlamentare deve venire a patti. Issato al Parlamento il movimento fascista con la dote rilevante di 35 deputati (eletti grazie ai Blocchi Nazionali promossi da Giolitti), Mussolini tentò così la carta della “istituzionalizzazione” del fascismo stipulando il “patto di pacificazione” il 03 agosto 1921. L’accordo di pacificazione tra fascisti, popolari e socialisti (tra i firmatari figurerà anche l’On. Tito Zaniboni che, ironia della sorte, sarà uno dei più noti attentatori del Duce!) era rivolto al disarmo delle squadre, e fu il frutto dei “buoni uffici” del Presidente della Camera, il giolittiano Enrico De Nicola.

Se col “patto di pacificazione” Mussolini riuscì comunque ad entrare nel “grande gioco” del Parlamento ed acquisire legittimità contemporaneamente, il futuro Duce rischiò la sconfessione da parte del movimento fascista: le Squadre, infatti, rifiutarono il Patto. Dopo un duro braccio di ferro, Mussolini, per non essere identificato con la “teppaglia” e perdere così i vantaggi politici fin lì conseguiti, si rassegnò ad un modus vivendi ambiguo, per cui il patto non venne disconosciuto dal movimento, ma la sua applicazione venne affidata ai vari leader locali: il che equivaleva ad affossarlo, senza che Mussolini se ne assumesse direttamente la responsabilità politica.

Questa vicenda face maturare in Mussolini la consapevolezza che il fascismo, lungi dall’essere un movimento labile e liquido, si andava costituendo, grazie al cameratismo stretto delle Squadre d’Assalto e al loro radicamento territoriale, come una rete di “rassati” locali del tutto indocili e insensibili ad istanze di disciplina, vuoi politica, vuoi militare; un quadro di sostanziale anarchia che non muterà con la fondazione in dicembre del Partito Nazionale Fascista (PNF) che da subito si rivelerà un organismo farraginoso, pletorico, incapace di comando. Le Squadre, in particolare, temevano che la “normalizzazione” del fascismo (paventata anche da Mussolini), preludesse allo loro liquidazione, esaurita la loro funzione di contrasto ai Comunisti. Di qui, il paradosso politico per cui, finito il “biennio rosso”, la violenza squadrista non cessava e iniziava a prendere inopinatamente di mira anche esponenti repubblicani, cattolici, finanche democratici. Un messaggio neanche troppo scoperto a Mussolini affinchè non si amalgamasse con i “pescecani”, i “traditori della patria”, gli “uomini del parecchio” che il movimento intendeva sconfessare per prenderne il posto al comando dello Stato. Questa situazione, nello scorcio tra il giugno 1921 e l’ottobre 1922, creerà molti problemi a Mussolini.

In condizioni “normali”, infatti, lo Stato avrebbe reagito e isolato i fascisti, riducendo all’irrilevanza politica Mussolini. Fu solo la frammentazione politica e la sempre più accentuata debolezza degli esecutivi (indotta dalla crisi dello Stato liberale già descritta nelle precedenti puntate), ad impedire che le sorti politiche di Mussolini precipitassero: da un lato, la debolezza degli esecutivi rendeva difficile la risposta repressiva di Prefetti e Questori, i quali, strettamente dipendenti dal potere politico, erano restii a compromettersi, temendo di essere facilmente “scaricati” da Roma; dall’altro, l’ambiguità dei Presidenti del Consiglio Bonomi e Facta, i quali (nella loro vieta logica “trasformistica”) sperarono di utilizzare l’appoggio parlamentare del PNF per provocare una scissione dei riformisti del PSI in chiave anti-fascista (cosa che sarebbe avvenuta, ma tardivamente nell’ottobre 1922 con la fondazione del PSU con Segretario Giacomo Matteotti).

Questa “grande coalizione” liberale-democratico-riformista avrebbe avuto il necessario seguito popolare e sindacale per “scaricare” successivamente anche il fascismo e non a caso Mussolini la temeva di più, specie se alla sua guida fosse andato (come si ventilava) una vecchia volpe come Giovanni Giolitti: “come ha fatto sparare su d’Annunzio, così farà sparare anche sui fascisti”, pare abbia confidato Mussolini ai suoi. Per evitare questa eventualità, Mussolini giocò spregiudicatamente su due piani. Da un lato, consolidò la sua credibilità di leader conservatore di centro-destra (per spezzare il fronte parlamentare moderato), concependo, specie nel 1922, concessioni “clamorose” al fronte conservatore come: le aperture al liberismo economico tramite gli articoli di Massimo Rocca sul programma economico del PFN (che rompeva con la piattaforma socialisteggiante del Programma di S. Sepolcro); l’abbandono tra il settembre e l’ottobre 1922 della “tendenziale repubblicana” del fascismo verso un più marcato lealismo monarchico, che si diversificava da quello conservatore tradizionale, per l’accento posto sui meriti che la Monarchia, con l’Intervento del 1915 e la vittoria di Vittorio Veneto si sarebbe conquistata davanti all’Italia (in questo rassicurò l’Esercito, concorrendo a guadagnarsene non l’appoggio, ma quantomeno la neutralità politica); le concessioni sempre più marcate al Vaticano in termini di riconoscimento statale della Religione Cattolica e delle opere di istruzione, che porrà le premesse, ad esempio, del riconoscimento statale dell’Università Cattolica e dell’abbandono dei vertici vaticani dei referenti politici sturziani e popolari.

Dall’altro, Mussolini giocò scopertamente sul bluff politico, caricando il teppismo e il sovversivismo fascista di motivazioni di reazione anti-comunista, che non aveva, ma che erano indotte dalla paura della borghesia per la nascita, nel 1921 di un Partito Comunista d’Italia che tallonava il PSI sul fronte “estremista” e “rivoluzionario” con programmi di aperta sovversione bolscevica, creando al suo interno incertezze e divisioni: tanto da portare un autorevole dirigente riformista del PSI come Giacomo Matteotti a vedere nel Comunismo la tabe che avrebbe impedito al PSI di convogliare nel suo antifascismo le aspirazioni di quella borghesia d’ordine e legalitaria che, stanca dell’estremismo da qualunque parte provenisse, specie nel 1922, non sarebbe stata insensibile ad una liquidazione dello Squadrismo e del fascismo stesso, in nome della “normalizzazione”. Mussolini, cavalcando queste ambiguità e divisioni della Sinistra, invece, fu abilissimo nel proporre sé stesso come garante della “normalizzazione”, giocando apertamente al bluff politico-giornalistico, accreditando l’impossibilità di venire a capo dei permanenti perturbamenti dell’ordine pubblico, se i Giolitti e soci non si fossero decisi a dargli tutto il potere nelle sue mani (Palazzo Chigi).

Il grande bluff politico fu la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, quando Mussolini riuscì ad ottenere la Presidenza del Consiglio, dando ad intendere ai politici di Roma (coi quale pure si coalizzò per costituire un Ministero) che una soluzione anti-fascista avrebbe provocato una sorta di nuovo assalto al “Palazzo di Vetro” da parte dei fascisti. Ma se questo evento riuscì così efficace nel dare al fascismo un’aura di invincibilità che in realtà allora non aveva (almeno militarmente), ciò lo si dovette all’intensa propaganda costruita da Mussolini e dal Popolo d’Italia attorno a due grandi eventi dell’estate, che confermarono presso il pubblico la fama di Mussolini come “castigamatti dei sovversivi”: da un lato, la sconfitta dello sciopero legalitario, proclamato dall’Alleanza per il lavoro il 01 agosto 1922, in chiara funzione anti-fascista, da Comunisti, Socialisti, Repubblicani, CGIL e Sindacalisti rivoluzionari antifascisti, quando le forze nazionali, capeggiate da Mussolini decisero di contrastare lo sciopero riattivando dove possibili tutti i servizi necessari alla popolazione (in Emilia, comunque, ci fu una lunga coda di violenze politiche); dall’altro, la vicenda dell’occupazione fascista del Comune di Milano il 03 agosto 1922, a maggioranza socialista.

Fu attraverso queste “prebende” che il Duce riuscì ad ottenere dalla Camera dei Deputati il 16 novembre 1922 la piena investitura del suo esecutivo e la prima delega ai “pieni poteri” per stabilire l’ordine pubblico in Italia. Sotto il ricatto dell’assalto dei manipoli che sarebbero intervenuti in caso di esito infausto del voto, il Duce ottenne dall’ “Aula sorda e grigia” di Montecitorio un primo indubbio successo: piegare una maggioranza di centro-sinistra (da fascisti, popolari, liberali, democratici, nazionalisti etc.), numericamente forte, ma senza spina dorsale politica e che in altre condizioni avrebbe certamente votato Giolitti, a votare per il parvenu di Predappio. Che non se ne sarebbe andato via se non dopo quasi 21 anni.

La storia della breccia di Porta Pia

La breccia di Porta Pia è un momento fondativo dell’unità e dell’identità nazionale. Oggetto di controversie tra i “liberali massoni” e i cattolici per svariati decenni, nel ricorrere oggi dei 140 anni, dispiace trovare ancora diffuse nei quotidiani frasi di questo tipo: “con Porta Pia è nato lo Stato laico” (Filippo Facci, Abbiamo riconsegnatoPorta Pia al Vaticano, Il post, oggi).

Come se prima di Porta Pia, lo Stato Pontificio fosse uno stato tipo l’Iran di Khomeini e i cattolici simili ai talebani di Bin Laden! Anticlericalismo superficiale, d’accatto, assolutamente privo di senso storico. Allo stesso modo, non è del tutto centrata la lettura in chiave di “rivoluzione italiana” dotata di una (relativa) base popolare come scrive oggi Diego Mengon in Libertiamo.it (Oggi, 140 anni fa, Roma diventa italiana. E l’Italia un pò romana):”la Repubblica del 1849 era stata instaurata con la sollevazione di buona parte degli abitanti della capitale, proprio in conseguenza del mancato appoggio alla causa nazionale da parte di Pio IX, durante il conflitto tra gli stati italiani e l’Austria.

L’inno d’Italia testimonia la nascita della nazione dallo scontro tra il potere temporale della Chiesa e la lotta costituzionale e liberale per l’unità della patria.

Il suo autore, Goffredo Mameli, morì nel 1849 sotto i colpi degli eserciti cattolici accorsi a Roma da tutta Europa per ripristinare l’autorità papale”. Due stereotipi (il Risorgimento come “rivoluzione anti-papista” e come “rivoluzione popolare”) entrambi fuorvianti per comprendere (oltrechè il Risorgimento) anche i moventi della “questione romana”.

Innanzitutto, si dimentica troppo spesso che la “questione romana” non sorge nel 1870, con Porta Pia; e non sorge nemmeno per la repressione dei moti del 1849 che determinarono la fuga del Papa da Roma e la nascita della (effimera) Repubblica Romana di Saffi e Mazzini. Viceversa, il 20 settembre costituisce la punta dell’iceberg della “questione ecclesiastica” scoppiata almeno fin dal 1852 nel Regno di Sardegna con le leggi Siccardi e le prime leggi “eversive” dell’asse ecclesiastico, che posero le basi della massiccia confisca a favore dell’Erario italiano di conventi e beni ecclesiastici; opera di confisca che, per altro, si accentuò tra il 1861 e il 1864 in pieno brigantaggio, quando i “clericali” furono effettivamente visti come “nemici interni” del nuovo Stato per l’appoggio ufficiale dato da Papa Pio XI alle rivendicazioni di Re Franceschiello, ovvero al principale animatore delle rivolte anti-sabaude nel Sud, dove i briganti fecero la parte dei leoni, dando non poco filo da torcere al neo-esercito italiano.

Sullo sfondo delle tensioni Stato-Chiesa, poi, non c’è solo una questione di “privilegi” economici, ma anche dispute legate al conflitto di giurisdizione tra Stato e Chiesa, tipici non solo in Italia, ma anche in Europa. Chiariamo subito: nessuno mai da Costantino in poi, si sognò mai tra i cattolici di imporre il Vangelo come legge dello Stato e di imporre pene coercitive per chi contravveniva al Vangelo, cosa che oggi capita impunemente nella sharia islamica: viceversa, il cristianesimo, specie nella sua edizione “romana” mostrò da subito un grande rispetto per le reltà temporali cd. “penultime”.

Nè mai lo Stato Pontificio divenne uno stato confessionale in senso stretto, perchè in esso le minoranze religiose furono sempre riconosciute e tollerate, prima fra tutte la minoranza ebraica che, regando i Pontefici, potè istituire una Sinagoga e dare vita ad una ricca e vitale comunità. Diversamente, i Pontefici (vedi Innocenzo III, Gregorio IX) non mancarono mai di dire la loro nelle questioni civili, ma in modo non troppo difforme da come oggi Benedetto XVI “dice la sua” in materia di matrimonio, etica, economia, enunciando principi di “morale naturale e aconfessionale”, oggi denominati “dottrina sociale della Chiesa”.

Ora, siccome tali enunciazioni, non confessionali, ricalcavano in gran parte massime e regole già codificate nel diritto romano, non era infrequente che Stati e Tribunali civili medievali, non ancora organizzati e disciplinati negli organismi burocratici e “castali” di oggi, regolassero la propria giurisdizione su regole e criteri di diritto, su cui Pontefici, Cardinali, avevano espresso il loro parere.

Questa esperienza giuridica di grande comunicazione tra diritto laico e religioso (in nome della comune matrice giusnaturalista) trovò la massima espressione nello ius utroque (combinazione tra diritto civile-diritto canonico) di Bologna del XI Secolo e nel “momento d’oro” del diritto canonico intorno al XVI secolo. Un simile modus procedendi, di evidente e conclamata “porosità” tra diritto civile e diritto canonico, creava sovrapposizioni tra giurisdizione civile ed ecclesiastica: un caso conclamato la questione massonica: contro la Massoneria si pronunciò prima nel 1738 il Papa in nome del principio di derivazione romanistica (e ritenuto ius gentium) secondo cui erano in linea di principio illecite le associazioni segrete e che professassero la segretezza nei propri Statuti. Provvedimenti che in diverse occasioni alcuni Stati filo-papisti (es. Granducato di Toscana e Regno di Napoli) poi recepirono in proprie ordinanze iniziando la persecuzione dei massoni. Il cuore della questione Stato-Chiesa è qui, e come si può vedere si tratta di una questone molto più articolata, molto più complessa ed ingarbugliata della semplice “laicità” e della semplice accusa di “confessionalismo” rivolta ai Papi ed ai Cattolici.

Potrebbe oggi rinascere un simile modus operandi? La questione è molto discussa, tra gli ecclesiologi e i giuristi di diritto ecclesiastico: c’è qualcuno che rinviene nel Concordato Lateranense del 1929 un dispositivo tradizionale di immissione nel diritto civile italiano di norme tipiche del diritto canonico (es. l’esenzione dei chierici dal servizio militare, la rilevanza dello status di “prete apostata” che fino agli anni 60 comportava alcune penalizzazioni e preclusione nei concorsi pubblici), viceversa c’è chi ritiene superata questa funzione del Concordato come custode dei “privilegi” giuridici della Chiesa, ritenendo acquisita l’idea che il Concordato, non mutando la fondamentale “autonomia” anche disciplinare tra Stato e Chiesa (vedi art. 07 Cost.), non possa determinare “limitazioni” in senso stretto di sovranità giuridica da parte dello Stato (così COLAIANNI, Laicità e prevalenza delle fonti di diritto unilaterale sugli accordi con la Chiesa Cattolica in Politica del diritto, Vol. XLI, nr. 02, giugno 2010).

Viceversa, altri rinvengono la conservazione di una relativa funzione di “privilegio giuridico” ecclesiastico nel Concordato, ma aderiscono ad una nozione di “diritto concordatario”, come diritto finalizzato ad individuare le fonti e le procedure per la regolazione di “sensibili” del rapporto Stato-Chiesa come lo status degli insegnanti di religione, i beni ecclesiastici etc. (ASTORRI, I concordati di Giovanni Paolo II, in Civitas, III, nr. 02/2006).

 Contro, però, l’accusa comunemente invalsa delle “ingerenze” della Chiesa negli affari degli Stati sulle questioni del divorzio, aborto, eutanasia, va detto che ormai il Concordato non è più uno strumento tanto efficace in questo senso. Ecco, perchè la questione della “laicità” andrebbe quantomai aggiornata. Oggi, comunque, è pressocchè impossibile la riproposizione di vere e proprie sovrapposizioni tra Stato e Chiesa nell’ambito dei diritti civili (matrimonio etc.) come ad esempio si verificò in occasione della “questione massonica” nel Sec. XVIII: soprattutto il declinare del cattolicesimo, come religione “di minoranza” rende oggi molto difficile riprodurre leggi civili contro divorzio, aborto etc., le quali oggi non troverebbero più il consenso maggioritario di ieri. Viceversa, anticamente, il cattolicesimo era “senso comune” presso le popolazioni; pertanto, in nessuno non destava meraviglia se un Re o un Giudice, per emettere una legge o una sentenza anche su aspetti rilevanti della vita civile (es. associazioni), si richiamava a pronunciamenti ufficiali del Papa in fatto di diritti e “morale naturale”. 

Venendo alla Storia d’Italia e all’impatto che l’intransigenza della Chiesa ebbe sull’unificazione nazionale, gli storici si sono divisi, dando vita a continue controversie. Dire, comunque, che la Chiesa disconobbe l’Italia come Nazione contro una supposta “volontà popolare” che era maturata in questo senso, è però ancora una grave inesattezza: nessun cattolico, infatti, alla vigilia dell’Unità d’Italia, disconobbe il carattere unitario delle popolazioni italiane.

Ciò che divideva i cattolici era il modo per valorizzare tale unità nazionale: alcuni (Monaldo Leopardi) ritenevano che il migliore garante dell’Unità Nazionale fosse il cattolicesimo e che  il Congresso di Vienna avesse trovato la formula ideale per garantire la sanità cattolica dell’Italia, restituendo al Papa la piena giurisdizione spirituale e all’Austria la giurisdizione “politica” sull’intera Cristinanità. Altri (Gioberti) cercarono di risolvere nella dialettica storicistica e filosofica la necessità di un’unificazione nazionale della Penisola. Altri ancora (Luigi Taparelli d’Azeglio, fratello del più celebre Massimo) non negarono in via di principio la bontà dell’Idea Nazionale, ovvero non negarono in linea teorica l’opportunità e l’utilità che all’Unità Culturale facesse seguito anche l’Unità Statuale, ma ne ritenevano non maturi i tempi, temendo soprattutto che i “diritti delle nazionalità” divenissero altrettanti “cavalli di Troia” per seminare nell’Europa disordini (sociali e geopolitici) paragonabili alla Rivoluzione Francese.

Alla fine, furono queste le ragioni di opportunità che spinsero i Papi italiani alla purdenza e all’attendismo verso lo Stato italiano, anche dopo che la ferita di Porta Pia via via si allontanava e, con essa, anche l’acme della tensione tra Roma e Casa Savoia. In questo, la posizione dei Papi dopo Porta Pia, la loro politica “astensionista” (non expedit) rispetto alle elezioni politiche (ma non alle amministrative) verso lo Stato Italiano corse parallela alla vicenda della Terza Repubblica francese, uscita, dopo la Comune, in un contesto di grande confusione politica.

Preoccupati che la Terza Repubblica francese fosse l’ennesima costruzione politica artificiale e “giacobina”, dettata da movimenti politici e d’opinione agitati quanto violenti, i Papi non si sbilanciarono troppo nel riconoscere lo status quo, almeno finchè le vecchie casate “legittimiste” di Borbone e di Orlèans, non ancora estinte,  avrebbero (almeno teoricamente) potuto costituire una degna “classe dirigente di riserva”. Morto, poi, Enrico V di Orlèans e cadute le ultime speranze di restaurazione legittimista, a Leone XIII nel 1886 non restò che riconoscere la Repubblica, in nome del principio che la dottrina sociale della Chiesa non si identifica con nessun ordine politico. Non dissimile sarà la politica del Papa verso l’Italia, a disagio, nella sua funzione di pastore della Cristianità Universale,  nel riconoscere i diritti di una Monarchia Italiana, che non è altro il frutto in fondo di una “usurpazione” che la Casata dei Savoia aveva compiuto ai danni delle altre casate cattoliche d’Italia (per il Papa altrettanto degne e legittime nei loro diritti storici). 

Tale posizione che, però, via via verrà meno e ne saranno una chiara avvisaglia le prime deroghe al non expedit nelle elezioni generali del 1904, l’entrata a Montecitorio dei primi “deputati cattolici” (Meda etc.) e il trionfo del Patto Gentiloni del 1913: tutte operazioni rese possibili, da un lato, dall’aperta e conclamata impossibilità di ripresa delle vecchie casate legittimiste e, dall’altro, dal tumultuoso evolvere degli eventi politici e sociali a seguito del decollo industriale italiano e della coeva affermazione del Socialismo Ateo e materialista.

A fronte di tutto questo, appare manifesta e conclamata la stupidità di chi rinviene nella Chiesa un “nemico della Nazione italiana”. A parte che l’unficazione italiana, bene o male, con tutte le sue luci, ombre e contraddizioni del caso, si realizzò e divenne fatto compiuto con la Prima Guerra Mondiale e con l’esperienza del “fascismo” che (con tutti i suoi limiti, errori e anche orrori) cercò comunque di intercettare energie, entusiasmi e speranze di un’Italia che si scopriva Nazione e si scopriva capace di “pensare in grande” al proprio futuro; a parte cioè che le controversie sulla “questione romana” non impedirono all’Italia di formarsi come Nazione compiuta, nonostante tutto, anche sul versante politico, il cambiamento di tono  dei cattolici verso le ragioni dello Stato italiano sono evidenti e si colgono nelle posizioni filo-interventiste di un Giovanni Grosoli  e di un Luigi Sturzo, grandi dirigenti del movimento cattolico “astensionista”, favorevole il primo alla Guerra di Libia nel 1911  e favorevole il secondo alla Grande Guerra nel 1914, nonostante il “neutralismo” fosse il corollario ufficiale della posizione “intransigente” del Vaticano verso lo Stato Italiano. Segno che la posizione critica e polemica del Vaticano verso l’Italia non sarà la causa del debole senso nazionale degli italiani; a far questo, ci penseranno trent’anni dopo i tragici eventi dell’08 settembre 1943 nel pieno della Seconda Guerra Mondiale e in un mondo completamente cambiato rispetto a Porta Pia.